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DICEMBRE 2019

DICEMBRE

 

Se il mondo ti sta crollando addosso e pensi di non aver la forza per proseguire, non perdere la fiducia in ciò che credi

Illustrazione_dicembre

Illustrazione_dicembre

Nel 2002, la casa editrice Einaudi di Torino pubblicò un testo inedito dell’antropologo Ernesto De Martino, famoso per le sue ricerche nel Sud Italia tra etnologia e storia delle religioni. Si intitola La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali e, più che un libro, è un laboratorio di ricerca nel quale si intrecciano documenti e riflessioni che spaziano dalla psichiatria alla letteratura, dalla storia alla religione, passando ogni volta attraverso i concetti di corpo, rito e valore.
Tra i molti esempi riportati da De Martino, uno viene approfondito in modo particolare: si tratta del caso del contadino bernese, descritto dagli psichiatri Storch e Kulenkampff.
Il contadino in questione era nato nel 1926 e all’epoca della cura era un giovane uomo di ventitré anni: sguardo fisso, viso scarno, portamento rigido e passo strascicato. Viveva col padre settantenne, la madre quasi cinquantenne, due sorelle, un fratello, poche parole e molte lotte. Questo giovane contadino ebbe un delirio da fine del mondo in seguito all’abbattimento di una grande quercia che si trovava vicino alla sua casa. Quando il padre l’aveva abbattuta per vendere la legna, mai avrebbe immaginato che quell’azione avrebbe abbattuto anche il figlio. La quercia, infatti, non era per lui
un semplice vegetale, ma un vero e proprio punto di riferimento. Senza quell’ancora di salvezza, il suo mondo era caduto sotto la minaccia di una fine incombente.
Ecco come la descriveva il paziente, leggendo tra gli appunti di Storch e Kulenkampff:
«La crescita degli alberi e delle piante non può più aver luogo, perché la terra è cava. Il suolo in lungo e in largo è diventato cavernoso. È cioè
accaduto che gli uomini in cerca di suolo saldo sono andati scavando fosse sotto terra e continuano a scavare sotto terra nel regno dei morti.»
«Per quale motivo gli uomini sono sprofondati sotto terra?»
«Per il crollo.»
«Che cosa pensi con la parola crollo
«Quando gli uomini non sono al loro giusto posto. Anche gli alberi, le cose. Ha avuto luogo un cambiamento. Gli uomini non hanno più le loro cose
con sé, e ora le cercano […] Il bel mondo non si può più ricomporlo in modo giusto. Il mondo di prima non c’è più, il bel mondo.»
«Ora com’è?»
«Mutato.»
«Le case, le strade […] Gli uomini non sono più a loro agio, sono spaesati. Anch’io non sono più al posto giusto.»
«Qual è il posto giusto?»
«Dove si è a casa.»

 

Sono in posizione fetale, immersa nel buio e nell’umidità. Cosa è successo? Ricordo il mio corpo attraversato dal terrore: ossa, pensieri e battiti scossi con la violenza della disperazione. Ricordo l’incredulità: la mia voce impastata di terra e sangue mentre cercavo di svegliarmi. Ma ero già sveglia; e stava capitando proprio a me. Ricordo il suono insistente del lavorio di un insetto: era come l’avvicinarsi inesorabile della morte. Tic, tic, tic, tic.
Poi la mia mano trovò un appiglio. Una corda calata nel sottosuolo per salvarmi? Erano finalmente arrivati i soccorsi? No, non era una corda, era più resistente, più vitale. Era una radice! Una radice che portava nutrimento a rami e foglie immersi nel sole e nell’ossigeno!
Quel buco improvvisamente non fu più prigione, ma casa, rifugio, preambolo alla rinascita.

 

Lo spaesamento di fronte al mutamento delle condizioni materiali ed esistenziali, la percezione di un crollo che ha stravolto lo stato delle cose impedendo alla persona di orientarsi, di sentirsi al proprio posto e a proprio agio sono sensazioni che caratterizzano non solo le persone con disagio psichico, ma tutti coloro che affrontano un cambiamento importante della propria vita.
Di più, sono percezioni che possono riguardare anche una comunità intera: la fine del mondo diventa così una visione collettiva e la crisi della presenza diventa la crisi di un intero gruppo sociale.
In questo senso, l’abbattimento delle Torri Gemelle, per il mondo Occidentale, si può identificare con l’abbattimento della quercia per il contadino bernese.
Una civiltà intera, dopo l’11 settembre del 2001, ha perso il pavimento – culturale, sociale, politico, morale – sul quale posava saldamente i piedi e si è sentita precipitare in un vuoto senza regole.
Il tema della fine del mondo non è nuovo. Anzi, da sempre ha accompagnato l’uomo nel corso della sua storia: dalla concezione lineare del tempo nella cultura cristiana dove sono presenti un inizio (la creazione) e una fine (l’Apocalisse) del mondo, fino al terrore atomico diffusosi durante la Guerra Fredda, passando per i movimenti millenaristici dell’Africa e dell’Oceania nati durante il processo di decolonizzazione.
A volte non si è trattato semplicemente di una paura o di un orizzonte, ma di fatti reali come nel caso dei campi di concentramento nazisti (che hanno cercato di porre fine a quella parte di mondo non allineata alle caratteristiche ariane: nel complesso, tra i 15 e i 17 milioni di persone) o nel caso della civiltà Maya (collassata proprio al culmine del suo periodo più fecondo).
L’ultimo uomo, della scrittrice britannica Mary Shelley, è il romanzo di fantascienza che per primo ha narrato l’apocalisse dell’umanità: era solo il 1826 e per tutto il Novecento, fino ai giorni nostri, la letteratura e la cinematografica hanno prodotto titoli su titoli.
Quando la percezione della fine del mondo si collega a una catastrofe, emerge con chiarezza il fatto che i disastri non sono semplicemente degli eventi fisici conseguenti a un impatto, ma sono soprattutto il collasso di un sistema di relazioni, valori e significati. Dei veri e propri fenomeni sociali nei quali giocano un ruolo importante la percezione del rischio, la vulnerabilità sociale e l’efficacia dei sistemi di comunicazione.
Questo spiega come mai, a parità di impatto, i danni possono differenziarsi a seconda della comunità che viene colpita. Come spiegare, altrimenti, i motivi per cui il terremoto in Armenia del 1988, di magnitudo 6.8, costò la vita a 55 mila persone, mentre quello in India del 2001, di magnitudo 7.9, a 30 mila persone? E, per fare un esempio più lontano nella storia, come spiegare il fatto che i popoli della Nuova Guinea e del Giappone contrastarono gli effetti dannosi del disboscamento tramite una migliore gestione delle foreste, mentre i popoli dell’Isola di Pasqua e della Groenlandia non ci riuscirono e perciò scomparvero?

 

Come spiegare il fatto che sono felice qui, adesso? Per la prima volta in vita mia, mi sento viva. Non sono mai stata così profondamente in ascolto del mio cuore e del mio corpo.
Sono nascosta, eppure visibile, senza maschere. Dentro questo buco, aggrappata ad una radice, sto provando una nuova consapevolezza e l’energia ha iniziato a fluire come un fiume in piena.
So chi sono. E so cosa voglio.

 

Le paure legate alla fine del mondo e le reazioni ai disastri (ai crolli) sono complesse e ricche di sfumature. Ce lo insegnano soprattutto la sociologia del rischio (da leggere Ulrich Beck e Anthony Giddens) e l’antropologia dei disastri (a partire da Mary Douglas fino a Anthony Oliver-Smith):
due discipline che si sono approcciate a questo tema in modo molto interessante, cogliendo le interconnessioni tra credenze, strutture politiche, istituzioni sociali e relazioni di potere.
In questo senso, le crisi e i disastri appaiono come degli strappi della realtà che ci permettono – nonostante il dolore e la tragedia – di scrutare i meccanismi nascosti del nostro agire e, se vogliamo e siamo coraggiosi, di diventarne consapevoli.

 

Sotto terra non posso mentire. Dopo tutti questi giorni – quanti ne sono passati in realtà? – mi rendo conto solo ora di sapere benissimo perché mi ritrovo qui.
È stato un processo lento, ma inesorabile, costellato di cattive abitudini mentali e una spiccata predisposizione alla cioccolata come palliativo. La mia voce aveva accolto il passo strascicato e bavoso della lamentela, le piccole difficoltà quotidiane si erano trasformate in vette insormontabili e ogni naturale contrasto umano feriva come un missile di guerra.
Quella buca, me l’ero scavata da sola. Per sentirmi al sicuro.
In realtà, stavo contribuendo al mio isolamento, alla mia morte.

 

«La presenza umana ha bisogno di essere protetta perché è strutturalmente soggetta al pericolo di sfaldarsi, di perdere se stessa e il mondo che le sta di fronte, di cedere alla crisi», così scriveva Ernesto De Martino nel suo testo-laboratorio sull’analisi delle apocalissi culturali. Ma come proteggere la presenza umana? Come dare sostegno al giovane contadino bernese, ai terremotati, agli sfollati, ai rifugiati, ai gravemente ammalati? Come rafforzare la loro rete di salvataggio – tessuta con trame di significati e orditi di valori – ormai lacerata?
Cure psichiatriche, case container, generi di prima necessità, centri di accoglienza, medicine: il sostegno materiale è importante. Nel caso dei disastri, molto spesso questo sostegno arriva dopo, sotto forma di azione d’emergenza e con una forte connotazione filantropica (la beneficienza, il sussidio, il risarcimento); più raramente arriva prima attraverso politiche di monitoraggio e prevenzione (sistemi di controllo e allertamento, azioni preventive e di consolidamento). Ma non basta. La presenza umana ha bisogno soprattutto di relazioni: corpi, mani, voci, sguardi.

 

Solo ora mi accorgo del lombrico che mi solletica l’alluce, delle formiche che stanno attraversando il polpaccio. Del millepiedi che mi accarezza i capelli. Non sono sola. Da qualche parte c’è il mio gruppo. C’è l’umanità.

 

L’antropologia dei disastri ha individuato alcuni fattori che contribuiscono all’incubazione di un disastro: rigidità organizzative e difficoltà comunicative, inosservanza delle norme di sicurezza e minimizzazione del pericolo. Sono tutti elementi che hanno a che fare con le nostre competenze sociali e comunicative; con la nostra capacità di organizzarci, creare un gruppo consapevole, capire e farci capire.
Anche il biologo evolutivo Jared Diamond, nel libro Collasso. Come la società scelgono di morire o vivere (Einaudi, 2005), ha annoverato tra i fattori determinanti per la lunga vita di una società proprio le relazioni: stretti legami di amicizia con i popoli vicini e buoni rapporti commerciali sono tra gli elementi che, nei numerosi esempi da lui riportati all’interno del volume, hanno impedito ad alcune società di collassare.
De Martino è andato oltre e ha sottolineato la necessità urgente di relazioni capaci di mettere in crisi l’etnocentrismo occidentale tramite la destrutturazione delle proprie categorie. Lo chiamava incontro etnografico, ovvero un confronto sistematico ed esplicito con le culture altre, con modi diversi di concepire e vedere il mondo, per arrivare alla consapevolezza che esistono tante possibilità storiche di essere uomini e donne.
È qui che bisogna lavorare; è qui che abbiamo il dovere di migliorarci. Nelle relazioni. Di fronte ad un mondo sempre più complesso e interconnesso non è facile: la precarietà della vita, gli spostamenti che ci sradicano e i veloci cambiamenti globali mettono a dura prova le nostre categorie e i nostri sistemi di significato. L’approccio dell’incontro etnografico può aiutarci a trovare la giusta distanza e la leggerezza necessarie per vivere in quella che il sociologo Zygmunt Bauman ha definito modernità liquida. Relazioni fluide, quindi: che non abbiano paura del confronto e del cambiamento; che portino fiducia e coraggio; che ci circondino come tante radici.

 

Sono nuda, sotto terra. Chiusa in un buco a chissà quale profondità.
Alcuni lo chiamano letargo. Altri fine del mondo. Io la chiamo resilienza.

 

Fuori non pioveva più, e oramai il giorno aveva preso possesso del mondo. I passeri sui cipressi cominciavano timidamente a cinguettare, come a dirsi: “Ma avete visto che nottata? È passata e si ricomincia a vivere.” (Niccolò Ammaniti, Come Dio comanda, pag. 347).

 

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Noi ci siamo lasciati ispirare da

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Come Dio comanda

di Niccolò Ammaniti

Rino e Cristiano Zena: il loro complicato e tragico rapporto di padre e figlio è il parte centrale del romanzo, da cui si apre una di una storia sconvolgente. Cosa abbiamo appreso da questo romanzo?
Se il mondo ti crolla addosso e pensi di non aver la forza per proseguire, non perdere la fiducia in ciò che credi.
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La scrittrice

ELISA GEREMIA

Ancora prima che mi regalassero la macchina da scrivere, amavo fare ricerche, impaginare giornali e venderli ai vicini. Nonostante tutto questo, non sono diventata una giornalista, bensì un’antropologa.
Mi piace trovare assonanze tra mondi lontani, creare ponti, lasciarmi stupire dal viaggio della scrittura e dei corpi che la generano.
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L'artista

SILVIA ANSALONI

Sono una progettista grafica con base a Verona. Ho studiato nella favolosa Vienna, dove ho poi iniziato a lavorare presso numerose agenzie operanti a livello internazionale. Questo mi ha consentito di ampliare i miei orizzonti creativi e progettuali. Ora lavoro a Verona come designer e illustratrice autonoma.
        
   
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